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Photos © Bob Sarnowski
Sarnowski
N°161
RIVISTA MENSILE - ANNO XVI
MAGGIO 2017
INDICE
6
24
40
56
Blindo pesante Centauro
1
/35
di Diego Bruzzone
Matilda Mk III/IV
1
/48
di Jay Laverty
Arabian Rhino
1
/35
di Zack Sex
M32B1
1
/35
di Artur Walachoski
Pz.Kpfw. IV Ausf. F1
1
/35
di Tomasz Hejmo
Oskhosh HEMTT
1
/35
di Stefano Albertini
Fiat 1100 militare NSU
1
/35
di Simon Antelmi
Novità
16
32
48
62
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M113…
Allora, prima domanda: cosa hanno in comune tutti i forum di modellismo dedicati ai mezzi corazzati? Tante cose, ma soprattutto il fatto che prima o poi
gli utenti si dividono in due ben precisi partiti, due schieramenti cosi netti e divisi che a confronto Guelfi e Ghibellini (o, se preferite, Genoani e Sampdoriani)
sembrano amici fraterni. Ovvero, mezzi nuovi di fabbrica pronti per la parata vs. rottami semoventi impastati di fango. Non c’è scampo, è inevitabile, è come
il collasso di una stella, prima o poi accade. E a quel punto, proprio come nel dopo derby Genoa-Sampdoria, ognuno spara ogni argomentazione a favore
della sua squadra, incluse le più inverosimili. Che poi, vedremo, non sono mica tanto inverosimili.
Ok, e ora seconda domanda, che apparentemente non c’entra un piffero con la prima. Cosa avevano in comune alla fine degli anni Sessanta l’Esercito Italiano
e l'US Army? Beh, tantissime cose, ma a me ne interessa una sola, ben precisa: l’M113. L’M113 è uno di quei mezzi che possono essere solo statunitensi.
Genialmente semplice, efficiente, efficace, robusto e, a suo modo, anche innovativo. È uno di quei mezzi che diventa “sinonimo” della sua categoria, gli
Armoured Personnel Carrier, i veicoli corazzati trasporto truppe. L’Esercito Italiano ne aveva migliaia (qualche esemplare è ancora in servizio attivo), e aveva
un'altra cosa, a migliaia, anzi decine, centinaia di migliaia. Najoni, soldatini di leva. E quando hai migliaia e migliaia di najoni, beh, puoi far fare loro di
tutto. Soprattutto, magari, lustrare e coccolare altrettanti M113 dopo ogni giro in poligono, ogni percorso su sterrato, ogni parvenza di esercitazione, ogni dan-
nato giorno… fino al punto di farglieli pulire con il kerosene e il gasolio per farli sembrare più scuri e lucidi!!! No, non scherzo, lo facevano davvero, me lo
ha confermato un amico sottufficiale dell’EI. Mentre ne parlavamo via FB, beh, mi sono immaginato la scena, con le “reclute” intente a tirare a lucido il loro
M113 mentre gli “anziani” canticchiano “burbetta sparati…” . Ora però lasciamo il bel paese e ci spostiamo di 9437 chilometri in un luogo caldo, umido e
pericoloso chiamato Vietnam. Cambiamo colonna sonora. Via “burbetta sparati” e mettiamo su “paint it black” dei Rolling Stones. Anche li c’erano gli M113,
migliaia di M113. E c’erano decine, centinaia di migliaia di “najoni”, ma erano GI americani, ed erano lì per il loro “tour of duty” in Nam. E non avevano
tempo per lucidare gli M113, perché Charlie, il nemico, aveva altri programmi. Sapete come era un M113 nell’Indian Country, cioè sul campo, in Vietnam?
Beh, provo a descriverlo basandomi su un report ufficiale dell’US Army dell’epoca. Dunque, all’interno, le panche venivano generalmente rimosse a colpi di
mazza non appena il mezzo arrivava al reparto. Sul pavimento i soldati stendevano un doppio strato di sacchetti di sabbia, un altro doppio strato di tavole
di compensato e un doppio strato finale di cassette di munizioni (sedicimila colpi) per le mitragliatrici. Era normale trasportare un centinaio di bombe a
mano, bangalore e mine Claymore appese a rastrelliere di legno installate dall’equipaggio. Di fronte, sempre secondo il report, la piastra frangiflutti con imbul-
lonata una ruota di scorta veniva fissata in posizione aperta con una corda di provenienza “navale”, questo per permettere lo stivaggio di brande, materas-
si, acqua, razioni C, birra, soda, frigoriferi da campo (!!!), tutto appoggiato sul portello d’accesso al motore. La trasmissione, a causa di questi carichi, diven-
tava inaccessibile senza dover scaricare tutto. Le insegne del mezzo descritto erano state ridipinte in nero e, sempre sulla piastra frangiflutti, si poteva leggere
scritta nera alta sei pollici, “kill for peace”, e sotto, attaccate a una corda, c'erano quattro lunghe trecce di capelli neri, un macabro riferimento a una super-
stizione locale secondo cui le donne non devono mai tagliarsi i capelli (ora, io in 1/72 forse me la sfango, ma voi trentacinquisti no, le trecce ve le dovete
fare…). E non aggiungo nulla sul fatto che, scarseggiando l’Olive Drab, era prassi allungarlo con il nero…
Ora, adesso capite cosa c’entra la seconda domanda con la prima? Beh, semplicemente la risposta rende insensata la contrapposizione frontale di cui sopra.
Il contesto conta e fa la differenza. Volete un M113 bello lucido? Ok, trovatevi targa e Stanag dell’EI e, magari, un veccho LP di Gianni Morandi da ascolta-
re durante il montaggio, che fa molto anni Sessanta. Lo volete brutto sporco e cattivo? Ci sono milioni di foto di ACAV in Nam out in the “Indian Country” a
caccia di Charlie… però togliete Gianni Morandi e ricordatevi di mettere su gli Stones, o i Creedence Clearwater Revival oppure Jimi Hendrix, fate voi. Il con-
testo, come ho scritto, conta.
Fabrizio Repetto
Steel
Art
Direttore Responsabile
Thomas Abbondi
Editore
Auriga Publishing International S.r.l.
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Diego Bruzzone, Daniele Guglielmi, Tomasz
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